IL COLORE DELLA POVERTÁ DI NAPOLI

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La povertà, ancor oggi, è forse la chiave per capire Napoli: e, quindi, anche per capire la vera, la buona cucina napoletana”. Idea triste e feroce, fatta passare anni fa da Mario Soldati, dopo uno dei suoi viaggi a Napoli. Di Carmine CimminoI “congiurati“ che da due secoli hanno un solo obiettivo, distruggere Napoli, e che portano avanti questo chiaro e lineare programma col sostegno entusiastico di molti napoletani, hanno deciso che la monnezza, il fetore, la morte per tumore facciano parte, definitivamente, del “pittoresco“ della città e della sua provincia: come il Vesuvio, la pizza, i maccheroni. Non c’è nulla a cui Napoli non sappia abituarsi. Nel 1975 Mario Soldati, in uno dei suoi “viaggi d’assaggio“, venne in città alla ricerca del vino di Lettere che egli aveva bevuto, subito dopo la guerra, in una fiaschetteria popolare, e che lo aveva incantato.

Colore rosso rubino carico, che tirava allo scuro; profumo vinoso e campestre; frizzantino, e quando giovane addirittura spumoso, non spumante, spumoso di una spuma che calava subito e subito spariva per sempre; pastoso, denso ma allo stesso tempo scivoloso: come un lambrusco di più corpo, come un barbera di meno corpo; e con un aroma, un retrogusto gradevolissimo di affumicato: un affumicato della stessa specie di quello del whisky al malto, ma infinitamente più volatile.

Così scrisse Soldati nel “pezzo“ dedicato a quel “viaggio“, che venne pubblicato nel 1977 in Vino al vino, con il titolo Il rosso di Napoli. Nel definire scivoloso il vino di Lettere e nel divertirsi intorno al significato di spumoso Soldati dimostrava di essere ispirato dal genio dionisiaco, che consente agli illuminati di trasformare le sensazioni e le percezioni in parole, immediatamente e totalmente. Il dio del vino e del banchetto ha rivelato gli “arcana“ di questo genio a pochi felici eletti, a Gianni Brera, per esempio, e oggi, a Gianni Mura e a Gimmo Cuomo. Dunque, nella primavera del ’76 Soldati segue la sua memoria immaginativa e cerca nei vicoli di Napoli quel vino di Lettere.

All’improvviso vede una bambina che regge un bottiglione di vino scurissimo. La segue. La bambina scompare in un basso, nella folla di donne semivestite e di uomini in calzoni e maglietta. Al centro della tavola sta, regalmente, proprio come in Miseria e Nobiltà, il piatto di maccheroni, purpurei di pomodoro. Purpurei: la porpora, segno di nobiltà. Soldati si fa indicare il luogo in cui la ragazza ha comprato il vino. In fondo al vicolo, vicino al tabaccaio. Il vinaio era vero, verissimo: ma infimo. Il vino non era Gragnano: ma Terzigno. La speranza delusa rende ingeneroso Mario Soldati.

Questo bicchiere di Terzigno, che bevo per aperitivo, lo trovo più aspro, più leggero, più volgare. Se il Gragnano appartiene a quelli che i francesi chiamano petits vins, piccoli vini, il Terzigno potrebbe essere definito addirittura un vino piccolissimo, non sgradevole a pasto, intendiamoci, e proprio perché così aspro e leggero, probabilmente buono anche sui pesci e sulle verdure, sebbene rosso. Mario Soldati non poteva sapere che a Napoli, in quegli anni, contrabbandavano per vini di Terzigno anche vini che non erano di Terzigno. Non sapeva che fino alla prima guerra mondiale i rossi di Terzigno, prodotti dai Medici, dai Roux e dai Bifulco in alcuni preziosi vigneti alimentati dal fuoco freddo delle lave pietrificate avevano conquistato, in tutta Europa, medaglie, diplomi e applausi.

Soldati va a pranzare in un vicolo, dall’altra parte di Toledo, in una piccolissima trattoria senza insegna, e credo, senza nome, che mi attrae da anni, ogni volta che vengo a Napoli, e dove non ho mai avuto il coraggio di entrare, tanto il suo aspetto è sordido. E invece il nome ce l’ha, lo squallido luogo: lo rivela, arrossendo, uno dei clienti. La bettola si chiama, scrive il torinese Soldati, Du fetente, traduzione approssimativa di “Add’’o fetente“. Il colto informatore ingentilisce il nome, assai poco adatto a un luogo di ristoro, spiegandolo in francese: come dire: chez celui qui sent mauvais, o se vuole, chez l’epoisonneur. In francese suona molto meglio, e non si sente il cattivo odore. Ma si mangia bene, qui, assicura il “parigino“. Perché la dispensa è sempre vuota.

Attendono il cliente, attendono l’ordinazione, e poi mandano a comprare. Tutto è sempre freschissimo. La sera, poi, si mangia ancora meglio della mattina: perché cambia gestione: ai fornelli subentra il cognato, che è un cuoco di grande classe. Il locale resta aperto fino all’alba, sempre. Soldati chiede come facciano a rifornirsi, la notte, e il “parigino“ risponde che a Napoli chi ha denari per comprare trova sempre chi vende, a qualunque ora. Specialmente se si tratta di cibarie.

A quel punto, la memoria di Soldati si illumina. Lo sorprende il nitido ricordo di una notte invernale di molti anni prima: un vicolo napoletano, buio, deserto, una donna che stringe a sé una bambina, e regge un vassoio colmo di qualcosa. Soldati si avvicina e “sente“ che è pane. Pane caldo, profumato. Chiede alla donna, con insistenza, dove abbia trovato, alle tre di notte, un forno aperto e pane appena sfornato. La donna risponde: Eh, caro signore, ce so’ pure di quelli che solo mo’ hanno i soldi. E poi.. e poi ognuno sta per i fatti suoi. Solo a Napoli, commenta il torinese, c’è qualcuno che solo alle tre di notte trova i soldi necessari per comprare un pezzo di pane, e c’è qualcuno, forse ancora più miserabile, che resta in piedi fino a quell’ora per venderglielo. La povertà, ancor oggi, è forse la chiave per capire Napoli: e, quindi, anche per capire la vera, la buona cucina napoletana.

Così si chiude l’articolo: con l’idea che la miseria di un popolo possa avere un’utilità pedagogica. Che è un’ idea feroce, perché genera l’idea che quella pedagogica miseria meriti di far parte, per sempre, dell’identità e del destino di quel popolo. Mentre leggevo, qualche mattina fa, l’articolo di Stella Cervasio sul tour tra i cumuli di monnezza dalla Stazione Centrale a Fuorigrotta, mi sono ricordato di quella turista inglese, non vecchia, non magra, non del tutto bionda, che nell’autunno del 1981 uscì dalla stazione della Vesuviana di Ottaviano e si mise a chiedere in giro, in un ruvido italiano, dove potesse incontrare un camorrista. E fotografarlo.
(Foto: "Sileno ebbro" (1628), acquaforte con bulino di Jusepe de Ribera)

L’OFFICINA DEI SENSI