Il coraggio di un parroco, i rimbrotti di un prefetto, il silenzio del vicesindaco di Napoli

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In una città in cui lo Stato è assente Tommaso Sodano avrebbe dovuto chiedere scusa a don Maurizio Patriciello e riaffermare il primato di quel che resta dello spirito civico.

Signor vicesindaco, credo di aver capito bene. La riunione è ufficiale: non si parla di sfilate di moda e di concorsi ippici, ma di roghi tossici e di discariche di amianto, di aria appestata, di terra inquinata, di acqua e di luce sporcate per sempre, e un parroco si permette di rivolgersi al prefetto di Caserta chiamandola solo “signora”, e non “signora prefetto”.

Il prefetto di Napoli rimbrotta il parroco, che poco dopo si rivolge a lui chiamandolo “signor prefetto”, e lui gli dice: bravo. Non mi meraviglio. Penso, prima di tutto, al peso del titolo. Non è un titolo qualsiasi. La parola “prefetto” è la sintesi dei poteri veri: la burocrazia, l’apparato, il ministro dell’Interno. Non è solo un titolo, è il pilastro dello Stato. In secondo luogo, non trascuro la mistica delle parole. Filosofi e teologi di primo livello hanno sostenuto e sostengono che la sostanza delle cose è tutta nel nome delle cose: chi conosce i nomi del dio, si appropria i segreti del suo essere.

Ho conosciuto présidi che quando si presentavano non dicevano “io faccio il preside”, a bassa voce, e con la “p” minuscola, ma proclamavano “Io sono il Preside” e pareva che la pronunziassero, la parola, tutta in maiuscolo, e pareva che, nel pronunziarla, si sentissero alti almeno tre metri. I funzionari dello Stato, i funzionari di prima fila, ho sempre immaginato che insieme con la bolla di nomina ricevano anche un libretto di istruzioni, che spiega come devono camminare, come devono sedersi, e parlare, e come atteggiare il sopracciglio. Il sopracciglio è fondamentale: lo inarchi in un modo, e comunichi disgusto, lo incurvi con angoli più acuti o meno acuti, e comunichi meraviglia, o stupore, o rimprovero: un angolo per il rimprovero affettuoso, un altro angolo per il rimbrotto sprezzante.

Cicerone disse del sopracciglio di un console che non era un sopracciglio qualsiasi, era la base dello Stato: Roma, il suo impero e il suo destino poggiavano tutti sul severo rigore di quell’arco di peli. Cicerone quel console lo teneva sui cabasisi, e infatti subito dopo raccontò come il sopracciglio del console si distendeva, si spianava, si avvallava nelle ore notturne, quando la casa del console si affollava di cantanti, suonatrici e ballerine, e risuonava di clamori e di sussurri non proprio mistici. Ma questo non ci interessa. Qualcuno invita a non dimenticare che un prefetto è il garante dell’ordine. Senza pause, senza eccezioni. E invece chi è questo don Maurizio?

E’ pur sempre un agitatore di popolo, un perturbatore della quiete pubblica, uno che invece di limitarsi alle prediche domenicali, prediche da ragù e da cannelloni, scende in piazza, e ti monta un casino, oggi per quattro fuochi, e domani perché piove, e dopodomani perché invece non piove. Gli agitatori si sa come funzionano: una ragione per agitarsi e per agitare la trovano sempre. Sarà: ma questa mi pare proprio una lettura eccessiva. Signor vicesindaco, le ragioni del suo silenzio, invece, non sono chiare.

Per lei che ha scritto il libro “La Peste” don Maurizio non può essere un prete qualsiasi. In una Chiesa in cui anche qualche vescovo la parola camorra evita di usarla – è una parola che impasta la lingua -, don Maurizio le cose e gli uomini li chiama con il nome e il cognome, e non si accontenta di parlare del male nel mondo, ma indica con il dito, e con le parole, il male di qui. Qui e ora. Nei commenti all’articolo del direttore di questo giornale una certa “Eva” – non so se chiamarla signora o signorina – si schiera con il prefetto di Napoli, e contro i bifolchi e i cafoni che ignorano regole e stile.

Si vede che “Eva” ha mangiato la parte fradicia della mela. Don Maurizio non è stato né cafone, né bifolco: si è rivolto al prefetto di Caserta chiamandola “signora”, e cioè con una parola che per la storia del suo significato e per virtù di etimologia vale più di ogni titolo. In un altro commento il sig. Francesco Esposito ha scritto: Ho notato anche il vicesindaco di Napoli, senatore Sodano, imbarazzato, infastidito, ma muto! Inesorabilmente muto. Miserabilmente muto. Vigliaccamente muto. Ha perso molta verve in questi mesi. Me lo ricordo sano e battagliero a Pomigliano, Acerra, Marigliano. Me lo ritrovo grigio.

Parole pesanti: spesso le detta l’ammirazione delusa. La conosco da anni, signor vicesindaco: e con amicizia le dico che in questa vicenda il dettaglio drammatico non è il rimbrotto del prefetto, non è il “bravo” che il prefetto elargisce al parroco che si corregge, ma è il suo silenzio: il silenzio del vicesindaco di Napoli, aggravato dalla sterilità del muto fastidio, dall’inutilità dell’ impotente imbarazzo. Il suo silenzio mi pare che non sia stato coerente né con la sua storia politica, né con le battaglie che lei ha combattuto contro i signori della monnezza, né con l’incarico che svolge in questo momento. Mi auguro che lei non venga a dirci che ha taciuto per rispetto delle istituzioni. Quali istituzioni?

Quelle ombre di forme e di nomi che a Napoli sopravvivono solo nelle intestazioni delle carte, nei timbri, e nelle targhe di luccicante ottone sulle porte degli uffici? Signor vicesindaco, lei che viene dalle “piazze”, lei che rappresentava in quel luogo la città di Napoli e il popolo di Napoli, perché non ha ricordato ai presenti a cosa sono ridotte Napoli e la sua provincia? Il prefetto di Napoli dice (La Repubblica, 21 ottobre) che era suo dovere pretendere che don Maurizio si rivolgesse al prefetto di Caserta chiamandola “signora prefetto”: se era suo dovere, ha fatto bene a pretendere. Ci mancherebbe.

Ognuno è responsabile dei suoi doveri, e della scala su cui li dispone. Ma lei, signor vicesindaco, aveva il dovere di chiedere scusa, a nome suo e a nome del popolo di Napoli, a don Maurizio Patriciello, e a quei pochi coraggiosi che come lui rischiano la vita per fare ciò che dovrebbe fare lo Stato. E che lo Stato non fa: e certi uomini delle istituzioni fanno di tutto perché lo Stato si distragga dai suoi obblighi e dai suoi compiti. Lei sa tutto questo, signor vicesindaco: lo sa meglio di ogni altro. E perciò aveva il dovere, oltre che il diritto, di pregare don Maurizio, davanti a tutti, perché continuasse la sua battaglia, e di dirgli, davanti a tutti, che per vincere questa battaglia non conta il rispetto del cerimoniale, non conta chiamare il prefetto “signor prefetto”, conta chiamare camorristi i camorristi, e cacciarli dal tempio, senza tante cerimonie.

In una città in cui lo Stato è assente da 150 anni, in cui la democrazia, se non è già morta, come pensa Roberto Saviano, versa tuttavia in imminente pericolo di vita, lei, signor vicesindaco, aveva il diritto e il dovere di riaffermare il primato di quel che resta dello spirito civico. Lei non l’ha fatto: e ha perso un’occasione.
(Foto: Bruno Paul, Disegno satirico: hanno la testa solo per poggiarvi la mano durante il saluto, 1904).

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