LA MELA ANNURCA DI SOMMA. LA DISPUTA ITALIA-GERMANIA

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Agli inizi del “900 c”era forte tensione tra Italia, Germania e Austria, perchè i due imperi ponevano ostacoli doganali alle mele annurche provenienti da Somma Vesuviana.

Nel 1901 il Bollettino Nazionale dell’ Agricoltura dedicò un lungo articolo al commercio delle mele annurche di Somma Vesuviana. Il mediatore poteva comprare le mele a colpo, cioè ancora sulla pianta. È inutile dire di che pasta fosse fatto un buon numero di mediatori: gli atti d’archivio della Questura e della Prefettura di Napoli ne illustrano con chiarezza i comportamenti e le relazioni. Il proprietario del meleto poteva, entro un determinato periodo di tempo, disdire il contratto: gli toccava restituire la caparra raddoppiata, anche se il suo nuovo cliente era un mediatore più potente del precedente. E lo era sempre: altrimenti solo un folle avrebbe osato venir meno alla parola già data.

Erano gli stessi meccanismi che regolavano la “trafica“ dell’uva. “Le Ditte esportatrici si incaricano dell’acquisto delle mele e anche della vendita diretta sui mercati di consumo, in modo che, volendo, possono costituire un trust ed imporre il prezzo di acquisto. Le Ditte si affidano ai mediatori, vastasi, del mercato di Napoli, i quali fissano quotidianamente il prezzo di vendita delle mele, e sono gli stessi che anticipano capitali alle persone che si incaricano della conservazione. Alle volte succede pure che gli stessi mediatori fanno anche da esportatori. Oltre a questi benefizi indiretti i vastasi percepiscono come mediazione una percentuale che oscilla dal 12 al 15 % sul valore delle mele vendute”.

La mediazione si svolgeva, dunque, a due livelli: i mediatori vesuviani che collocavano le mele sul mercato di Napoli, i mediatori napoletani che controllavano la vendita in città e l’esportazione al Nord. I più importanti produttori di Somma erano Baldassarre D’Avino, Michelangelo Raja e Michele Giuliano, mentre i traffici tra il mercato di Napoli e quelli dell’ Italia settentrionale erano nelle mani del padovano Paolo Boscolo, del veronese Cipriani, dei fratelli Gondrand, di Giosuè Tortora di Pagani e della società stabiese- napoletana Cirio- Cotronei – Montefusco.

Considerate le premesse, si comprende perché i prezzi erano “variabilissimi“: oscillavano “dalle 3 alle 10 lire a quintale per le mele che cadono dalla pianta, avanti la raccolta; per quelle raccolte a mano che si commerciano nell’autunno dalle 15 alle 50, e, al principio della primavera, dalle lire 50 alle 120 per quintale”. Di solito, le mele annurche venivano trasportate dai meleti ai depositi dentro ceste chiamate collette, fatte di legno di castagno e munite di coperchio: avevano forma rettangolare, angoli arrotondati, erano alte 50 cm., lunghe fino a 70 cm., larghe fino a 40. Al centro dei lati lunghi c’erano due piccole funi, che tenevano fermo il coperchio, di poco più alto del recipiente e munito di larghe fasce, tali da “comprendere la cesta e rivestirla per circa un terzo dell’altezza. Nel riempire le collette si ha cura di mettere sul fondo inferiore dell’erba, che agisce come cuscinetto elastico per attutire gli urti tra mele, evitando così le contusioni“.

Ovviamente in fondo alla cesta si disponevano le mele più piccole e meno belle, nella parte superiore, invece, l’accoppatura, fatta con le mele più grosse e più rosse, che con due o tre strati a piramide superavano l’orlo del recipiente. Il trasporto dai mercati ai rivenditori al minuto veniva fatto, quando il prezzo era basso, con cestini capaci di 15-17 Kg, i terzaroli, e, quando il prezzo incominciava a salire, con i variali, cestini più piccoli che contenevano non più di 10 Kg. I carri ferroviari usati per il trasporto delle mele all’estero erano, nella stagione calda, i così detti “refrigeranti“, che avevano aperture protette da grate di ferro, adatte a far circolare l’aria anche nella parte inferiore del vagone. In inverno, invece, si usavano carri comuni: ma gli sportelli restavano rigorosamente chiusi e le pareti erano rivestite di paglia.

Il corrispondente del Bollettino riconosce che “in generale, all’estero sono piuttosto precisi nelle consegne”. Egli usa parole durissime contro la politica dei dazi adottata, nei confronti delle annurche sommesi e giuglianesi, dall’ Austria e dalla Germania, insomma contro “il programma di sfruttamento tedesco nei riguardi dell’economia meridionale“. Dodici anni dopo, l’on. Barzilai dichiarò, in un discorso tenuto a Napoli, che era inevitabile la guerra contro i due Imperi, per liberare l’agricoltura meridionale dall’ “assedio economico“.

La Germania concedeva “l’esenzione doganale a determinate varietà di frutta ed erbaggi italiani, i quali venivano invece colpiti dal dazio nel tempo in cui la produzione tedesca poteva sopperire ai bisogni del consumo. Si doveva far godere al consumatore tedesco i benefici del bel sole d’Italia, che consente la coltura delle primizie, ma in pari tempo respingere la concorrenza non appena dei tardi raggi del sole si riscaldassero gli orti del Nord“.

Infatti le mele esportate in Germania erano esenti dal dazio per tre mesi, dal 1° settembre al 30 novembre: negli altri nove mesi si pagavano 2 marchi a quintale, “quando le mele si trasportano rinfuse nei carri“, tre marchi, “quando l’imballaggio è semplice“, 5 marchi, se l’imballaggio era di lusso.
(Foto: Quadro di Federico Rossano, “Strada di campagna”)

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