“LE ERUZIONI DEL VESUVIO MONITO PER I PECCATORI”

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Le dichiarazioni del vicepresidente del CNR (“i terremoti sono la voce della bontà di Dio”), ridanno lustro alla teologia della catastrofe, praticata in particolare dal Cristianesimo. Di Carmine Cimmino

Il Vicepresidente del CNR, Roberto De Mattei, intervistato da Radio Maria, ha detto che i terremoti “sono una voce terribile, ma paterna della bontà di Dio”. Si è scatenato un pandemonio. Proteste, richieste di dimissioni (dimissioni? che vuol dire questa parola?), proposte di scambi, come da ragazzi facevamo con le figurine dei giocatori. Al Vaticano diamo il De Mattei, e noi ci prendiamo monsignor Ravasi. Ma non credo che il Vaticano abboccherà: non c’è conguaglio che possa indurli, i monsignori della Curia, a cedere monsignor Ravasi.

Monsignor Ravasi sa perfettamente che il De Mattei ha detto cose che fino a poche decine di anni fa venivano dette dai pulpiti, e non solo da quelli delle chiese di campagna. Tutte le religioni hanno cercato di giocare con la paura della gente, ma solo il Cristianesimo ha costruito, sulla base di Mosè e delle piaghe d’Egitto, una vera e propria teologia della catastrofe:

terremoti, alluvioni, pesti e carestie erano (lo sono ancora?) i severi moniti dispensati dalla bontà di Dio agli uomini invischiati nel fango del peccato. I teologi napoletani e nolani così lessero, dal 1631, le eruzioni del Vesuvio, che, tra l’altro, si prestavano, più di ogni altra catastrofe naturale, a questo commento teologico, perché duravano abbastanza per attribuirne l’inizio alla bontà severa di Dio, e la fine alla Sua misericordia, invocata da processioni, dalle repentine e pubbliche conversioni di noti peccatori, dalla intercessione dei Santi Patroni.

Durante l’eruzione del 1766 i Gesuiti, a cui Bernardo Tanucci, l’onnipotente ministro di Carlo III, aveva ordinato di andar via dal Regno di Napoli, spiegarono al popolo che ceneri, lave e lapilli erano la punizione di Dio per l’empio provvedimento di espulsione. Ma il famoso predicatore domenicano padre Rocco guidò fino al ponte della Maddalena una folla immensa di penitenti che portavano in processione la statua di San Gennaro. Egli fece il miracolo: fermò il fiume di fuoco che minacciava la capitale.

I Domenicani e San Gennaro si schierarono con Tanucci, mentre Maria Maddalena Sterlich, considerata santa già in vita, prima prese le parti dei Gesuiti, poi confessò d’essere stata costretta a dire che la furia del Vesuvio era il segno della collera di Dio contro Tanucci. Tra il 5 e il 7 aprile 1906 sul lato meridionale del vulcano si aprirono delle bocche, e ne sgorgarono fiumi di lava. Tra il 7 e l’8, che era la domenica delle Palme, incominciò il dramma di Ottajano: il cratere crolla, si innescano terribili esplosioni, una nube smisurata, a forma ora di pino, ora di cavolfiore, si dilata nel cielo, fino a 5 km. di altezza. Michele Cola, parroco di San Michele, Chiesa Madre di Ottajano, scrive nel Libro dei Morti, sotto la data del 7 aprile, due sole parole: Dies irae. Il giorno dell’ira di Dio.

San Gennaro protesse Napoli in tutte le eruzioni, eccetto che in quella del 1872. O almeno nel 1872 parve alla “plebe napoletana“ che il Suo intervento fosse tardo e non risoluto, tanto che sul Ponte della Maddalena andò in scena una chiassosa protesta contro il Patrono. L’inglese “The Graphic” ne diede notizia nel numero del 1° giugno e pubblicò, a corredo, un disegno di Durand, la cui matita era vigorosa, ma spesso eccessivamente incline all’enfasi. Un mese prima a Nola anche San Felice si era levato a difesa della Sua città contro il Vesuvio. Del miracolo dà una dettagliata descrizione il canonico Raffaele Longo in una lunga lettera, scritta su carta intestata della Curia Vescovile di Nola, e indirizzata a Girolamo Milone, direttore del periodico La libertà cattolica:

“…Nell’ultima eruzione vesuviana, circa le due del pomeriggio del 26 aprile 1872, mentre la incendiosa lava del cratere terribile, che vomitava fumo, lapillo, cenere soffocante, gettava nella costernazione tante famiglie e quasi rendeva desolate le circostanti campagne, qui in Noia accadde un fatto straordinario sul quale ho serbato un prudente silenzio finché non fosse pronunziata la sentenza della competente autorità ecclesiastica. Una fanciulla di umili condizioni, e che da pochi mesi era uscita dal sessennio, mentre soletta si trastullava dentro il cancello che circonda la statua in marmo di S. Felice Vescovo e Martire, sita nell’ emiciclo orientale, nel largo della stazione ferroviaria di Nola, vide muoversi la Statua suddetta, e temendo le fosse caduta addosso fortemente sbigottita gridò chiamando sua Madre che poco lungi da lei attendeva al lavoro delle funi”.

“A quelle grida corse molta gente, che nulla vide del muoversi della Statua suddetta, tutti però l’osservarono col volto diretto non più come prima, verso l’occidente della città, sebbene con la faccia verso il mezzogiorno direttamente alla bocca principale del Vesuvio. Quando accadde il fatto, il cielo era bello e sereno, né vi erano nubi per l’aria, eccetto un pino di cenere e fumo, che sollevato dal monte terribile pendeva in aria quasi sulla città…”

Il Vescovo di Nola, Giuseppe Formisano, aprì, sul miracolo, un regolare processo canonico, che durò circa sei mesi. Vennero discusse le perizie di artisti statuari, di architetti e di periti muratori, e vennero esaminate le dichiarazioni di un grandissimo numero di testimoni, “sotto ogni riguardo autorevoli: avvocati, artisti, pittori, impiegati e proprietari e conoscitori del luogo e della statua“. Si giunse, infine, al felice risultato: il contorcimento della statua constava dalle ginocchia in su, restando fermi e immobili, e nella loro antica posizione, sia i piedi che lo zoccolo e la base sottoposta, in cui non si osserva né frattura, né smossa di terreno, né alcuna sgretolatura: il fatto poi è sensibile e permanente.

Il Direttore del “Pungolo“, raccontando la storia in un articolo del 27 novembre, intitolato Un miracolo a noi vicino, si divertì a fare da avvocato del diavolo sui punti oscuri della vicenda. Il portavoce della Curia nolana non gradì, ovviamente: riconobbe al giornalista miscredente il diritto di avere, in materia di religione, le idee e i sentimenti “che più gli piacevano“, ma gli ricordò che ne avrebbe dovuto dar conto a Dio. È lecito sperare che Dio abbia concesso il Suo perdono, e ancora lo conceda, a tutti quelli che meritavano e meritano di essere perdonati.
(Foto: G. Durand "La plebaglia di Napoli aggredisce San Gennaro". The Graphic, 1 giugno 1872)

LA STORIA MAGRA