L’UORGIO P””A TOSSE E L’ALICE “E MATENATA

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Due modi di dire che hanno antiche origini ma ancora oggi fotografano bene situazioni reali. Di Carmine CimminoHa avuto l’uorgio p’’a tosse chi credeva di aver già vinto, ed è stato sconfitto, il presuntuoso sgonfiato, il tirannello buttato giù dal piedistallo su cui era montato e stava seduto come per diritto divino. Davide che abbatte Golia gli dà l’uorgio p’’a tosse. L’espressione non si attaglia a ogni tipo di vittoria, ma solo alla vittoria sorprendente e imprevista, riportata contro chi crede di non avere rivali: con me se mmesurano ‘a palla. La metafora ruota intorno all’immagine della tosse. La tosse è un sintomo fisiologico, di un’affezione al sistema respiratorio, ma è anche un segnale psicologico: avverte che l’equilibrio degli umori si sta alterando, e che prende il sopravvento l’umor nero del fastidio e dell’ira.

Tossisce a colpi secchi chi non ha più voglia di ascoltare gli altri: hanno parlato già troppo, e a vuoto, e bisogna mettere punto. Devo mettere punto. Questa tosse psicosociale può essere diplomatica, urtante, camorrista, scatarrante: c’è anche la tosse ironica, c’è la tosse sarcastica. Ha diritto di tossire colpi di tosse di tale portata solo chi detiene ed esercita un potere vero, reale: ma spesso se li consente, questi colpi, anche qualcuno che non conta niente, che non è nessuno. Talvolta alza la voce anche chi farebbe bene a tacere: uno che non è nessuno e invece crede di essere qualcosa o qualcuno. Pure ‘e pulece teneno ‘a tosse.

Come l’orzo placa la tosse vera, così le bastonate, vere e metaforiche, calmano e riportano alla ragione chi ha perso la testa, chi se n’è gghiuto c’’a capa. Sul significato dell’ espressione non ci sono dubbi. Qualche studioso di lingua napoletana ritiene che il centro della metafora sia non la tosse, ma l’orzo, e che il tutto trovi la sua spiegazione nel fatto che nel repertorio delle punizioni lievi previste per i legionari romani colpevoli di infrazioni lievi c’era l’obbligo di mangiare pane d’orzo invece che di grano. Non mi convince, la tesi, prima di tutto perché non spiega cosa c’entri la tosse, e poi perché l’orzo entrava nel menù dei gladiatori e dei legionari per le sue virtù medicamentose, e non come strumento di punizione.

Dice Plinio che una tisana d’orzo, con l’aggiunta di porro, era un ottimo rimedio contro la tosse i catarri di petto e le infezioni alla trachea e ai polmoni. I legionari romani in tempo di pace mangiavano di tutto: in guerra, e in territorio nemico, la portata più importante del rancio era un terrificante miscuglio di orzo, di vino prossimo a diventare aceto, e di aglio. Anche gli opliti ateniesi e i soldati di Alessandro mangiavano aglio. L’orzo rinfrescava il sangue e l’aglio vi immetteva tutta la sua energia. Ma non possiamo parlare dell’aglio in un articoletto dedicato all’orzo, che ha sapore approssimativo e stracco. L’aglio va nella lista degli argomenti che meritano un trattamento di riguardo: tra l’altro, è un protagonista incisivo, anche se riservato, della cucina napoletana.

L’orzo entrò, e forse ancora entra, nelle pomate che le signore usavano per conservare fresca la pelle del volto, e per spianare le rughe dell’età matura. Ma in ogni sua misura il tempo è nemico feroce della bellezza: non solo il tempo degli anni, ma anche quello delle ore. La freschezza di certi volti femminili, in cui l’opera della natura ha ricevuto il sostegno morbido e invisibile delle creme, è viva e piena nel primo quarto della giornata; poi, sciogliendosi gli unguenti a poco a poco, a poco a poco lo splendore di quei volti si vela, la stanchezza lo appanna, lo offusca, lo spegne. Queste donne sono come alici ‘e matenata: le alici appena pescate, che di primo mattino sfavillano, nel luccichio ancora intenso dell’acqua di mare, sui banchi delle pescherie.

Poi l’acqua si prosciuga, le alici si strapazzano, i colori si abbassano in quel grigio che prima ne esaltava l’intensità, e il grigio da azzurro diventa neutro e smorto, e nulla lo può ravvivare: né le generose spruzzate d’acqua marina che la mano sapiente del pescivendolo distribuisce senza sosta, né i vermigli riflessi delle triglie, dei gamberoni e degli scorfani che quella mano sapiente non a caso ammucchia sui fianchi e sui bordi delle spaselle di pesce azzurro.

L’OFFICINA DEI SENSI