NELL’OFFICINA DOVE NASCONO LE TAMMORRE

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Antonio Esposito, in arte Tonino ‘o Stocco, ci mostra il suo laboratorio artigianale, in una fattoria nei pressi di Mariglianella. “Da sempre fabbrico strumenti popolari per passione. Ma oggi ne ho fatto la mia attività principale”.

«Ci vogliono molti anni di esperienza per imparare a fabbricare una tammorra come si deve. Questo è un vero mestiere. Lo faccio da quarant’anni, e oggi è la mia attività principale, però non mi importa di guadagnare chissà cosa. Io voglio aiutare a conservare la nostra cultura, che rischiamo di perdere». E in effetti, entrare nel laboratorio di Antonio Esposito, in arte Tonino ‘o Stocco, è un po’ come entrare in un museo. Siamo in campagna, nei pressi di Mariglianella, tra i fiori gialli dei broccoli e rare fattorie. In una di queste, vive insieme alla moglie Raffaellina questo ex carpentiere 60enne, conosciuto e rispettato nell’ambiente della musica popolare (molti lo ricordano con ‘e Zezi, il noto gruppo operaio della vicina Pomigliano).

Tonino è un artigiano loquace, nulla a che vedere con la silenziosa operosità di molti suoi colleghi. È lui a mostrarci come nascono gli strumenti più conosciuti della tradizione popolare vesuviana: prima tappa, la rimessa del legname che sorge accanto alla fattoria. Qui arrivano i limoni della Sicilia, le acacie, i castagni e i noci del Vesuvio, i frassini irpini, i faggi della Sila e del Gran Sasso, o anche gli ulivi del Salento. Ognuna di queste specie è buona per fabbricare uno specifico strumento: può andar bene per un tamburo, una castagnetta, un tricchebballache, uno scetavajasse o un putipù.

E intanto, nel vicino essiccatoio, le pelli di capra sono stese su telai e tirate da chiodi. «Siamo noi a lavorarle», dice Tonino. «Ma lo facciamo in una struttura specializzata. Le pelli ricevono un trattamento naturale, poi le portiamo qui per l’essiccazione». Ma è nell’officina di mattoni di tufo, che si nasconde il cuore artigianale di questa fabbrica delle tammorre. Il legno è stato già tracciato a matita e tagliato, per ricavare i «foglietti» che serviranno da cornice per il tamburo. Ce ne sono di varie dimensioni, per le tammorre grandi o i tamburelli o anche per i pandeiros brasiliani, quelli che si usano nella samba (insomma, qualche concessione alle altre culture bisogna pur farla).

Si deve dunque piegare il legno, e applicare la pelle, ma in molti casi si fa anche di più. Nel telaio del tamburo vengono aperti dei vuoti, per piazzare i piccoli cimbali di latta, quei sonagli striduli che daranno al suono la caratteristica scia metallica. La cornice verrà decorata con motivi floreali, oppure con esoterici grecali o spirali, che siano intessuti o dipinti, oppure marchiati a fuoco. Con l’eventuale aggiunta, poi, di svolazzanti nastrini rossi.

A un certo numero di tammorre, Tonino fornisce poi dei tiranti di metallo, che consentono di accordare la sottile membrana. Così un tamburo popolare diventa uno strumento del tutto professionale, e non bisogna più consultare il barometro, per capire se il suono sarà rotondo e vibrante, oppure più morbido, forse finanche fiacco. «Quando il tempo è umido», ricorda Tonino, «la sonorità si ammoscia. Bisogna aspettare il vento secco, per avere una membrana tesa al punto giusto. Con i tiranti fabbricati da noi, l’accordatura viene invece fatta a mano. Questo tipo di tamburo è ancora un esperimento. La sfida è rendere la cornice leggera, perché i tiranti sono pesanti, e allora possono rendere la tammorra poco maneggevole. Se funzionano, potrei vendere questi strumenti anche attraverso internet».

Però la tecnologia non basta, se non continua a scorrere la passione dei musicisti. Per ora, il fuoco sacro non è sopito, se sono autentiche quelle macchie che Tonino ci mostra, sulle membrane di alcune delle sue tammorre preferite. «È il sangue dei musicisti», allude. E sembra di intuire un mondo di sfide arcaiche tra i protagonisti delle tammurriate: chi picchia più forte (sugli strumenti), chi ruota più vorticosamente, chi gorgheggia nel modo più ardito. Un metodo antico, e sapiente, per regolare (e forse scogliere) le tensioni sociali.