Portici. Il triste primato di Pietrarsa postunitaria

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Nel 1863, quella che era l’eccellenza metalmeccanica d’Europa rimase senza commesse: gli operai in rivolta furono trucidati.

La crisi per mancanza di lavoro non ha età e non è una caratteristica esclusiva dei nostri tempi. Cambiano le modalità delle proteste e per fortuna, cambiano anche le modalità di risposta da parte delle autorità. Prima del ‘900 però, non era così e l’uccisione degli operai dell’opificio di Pietarsa ne sono una testimonianza storica rilevante.

Questo l’elenco completo dei morti (che secondo alcune fonti, invece, furono 9) e dei feriti dell’eccidio di Pietrarsa del 6 agosto1863, rinvenuto negli archivi della Questura e dell’Ospedale dei Pellegrini di Napoli:
Domenico del Grosso, Aniello Marino, Aniello Olivieri e Luigi Fabbricini. I feriti: D’Amato Vincenzo di Resina, Giorgio Martucci di San Giorgio a Cremano, Giuseppe Farino, Pietro Canini, Ferdinando Russo di San Giovanni a Teduccio e Giacomo Marino. E ancora : Aniello De Luca, Giuseppe Caliberti, Domenico Citara, Leopoldo Alti, Alfonso Miranda, Salvatore Calamazzo, Mariano Castiglione, Antonio Coppola, Ferdinando Lotti, Vincenzo Simonetti. Tra i feriti c’era anche un ragazzo di 14 anni, colpito come molti altri alle spalle, mentre, evidentemente, scappavano dalle “palle di fuoco” e dalle lame delle baionette.

I fatti. Estate del 1863. A due anni dall’Unità, le commesse di quello che era il Real Opificio di Pietrarsa, tra i primi in Europa, erano diminuite drasticamente, con la conseguenza della perdita di numerosi posti di lavoro. La situazione di Pietrarsa non cambiava, anzi, peggiorava costantemente e i licenziamenti aumentavano. Gli operai di Portici si misero in agitazione. Nel 1860 le maestranze di Pietrarsa erano 1050; all’epoca, l’Ansaldo di Genova ne contava meno di cinquecento e la Fiat di Torino non esisteva. Il 31 luglio del 1863 il numero degli operai era sceso a 458 ed erano previste ulteriori riduzioni del personale. Gli operai, decisi a difendere il proprio posto di lavoro, si radunarono nel cortile dell’officina, determinati a non muoversi. Allertato dai nuovi dirigenti, il questore di Napoli, Nicola Amore, inviò le Forze Armate italiane: Guardia Nazionale, Bersaglieri e Carabinieri.

Fu dato l’ordine di fare fuoco, di assaltare con le baionette gli operai disarmati. E fu strage. Una strage negata dalle autorità, praticamente ignorata dalla stampa dell’epoca, morti e feriti innocenti senza nome, senza la dignità della memoria. Il questore Nicola Amore, in seguito divenne sindaco di Napoli e gli fu intitolata una piazza. La strage di Portici, la portata e la vergogna di quel terribile evento, finalmente è venuta fuori; molti, ancora oggi, ignorano i fatti; qualcuno ne sapeva un po’ per la canzone degli “Stormy Six”, un gruppo degli anni ’60, sull’eccidio di Pietrarsa. Anche nella stessa Città di Portici non è un episodio molto noto; nel 1996 l’Amministrazione comunale pose nel cortile di Pietrarsa una lapide commemorativa, opera del compianto Bruno Galbiati, artista porticese.

Davanti a questa lapide, ogni 1° maggio si ricordano le morti bianche e, ora, il 6 agosto, si onora la memoria delle vittime di Pietrarsa. L’ Associazione culturale “Proteneo”, col patrocinio dei Comuni di Portici e San Giorgio a Cremano, ha organizzato l’evento commemorativo del 6 agosto scorso.
L’associazione prende, simbolicamente, il nome dal termine greco del luogo dove ci si riuniva per dirimere le divergenze e stabilire le linee di governo della polis, ma anche un acronimo ovvero PROgetto TErritoriale NEOmeridionalista che ha come scopo rilanciare il dibattito sulla nostra cultura e la nostra storia, anche sociale ed economico.

Il dibattito è stato moderato da Francesco Menna, segretario regionale del Partito del Sud; sono intervenuti l’ex sindaco di Portici Leopoldo Spedaliere, l’attuale vicesindaco Bruno Provitera, l’assessore al Commercio del Comune di San Giorgio a Cremano Borrelli, l’assessore allo Sviluppo del Comune di Napoli Marco Esposito, il coordinatore del Movimento Neoborbonico attivisti, Vincenzo Gulì, il coordinatore di "Italia Prima" Michele Ladisa e il prof. Aldo Vella. Gli interventi hanno avuto lo stesso filo conduttore: non si è solo voluto celebrare la strage di Pietrarsa, ma è stato unanimemente sottolineato che è venuto il momento di non far rimanere vuote le parole, di renderle incisive e far conoscere a tutti i meridionali la grande storia del Sud.

Ripercorrere quello che è stato il passato non è nostalgia, ma è il ritrovare l’identità orgogliosa di un grande popolo che ne ha perso la coscienza. I punti toccati nel dibattito sono stati diversi, ma tutti incentrati sulla necessità di unire gli intenti, per ristabilire, almeno, la verità storica. Il prof. Aldo Vella, in particolare, ha fatto una proposta di gemellaggio con Mongiana. Reduce da una visita alla piccola città calabrese, ha ricordato l’importanza a livello europeo che ebbe la siderurgia mongianese in epoca borbonica; dopo l’unità d’Italia, la sua fiorentissima industria subì la stessa sorte delle officine di Pietrarsa. Ora Mongiana, piccolo paese della Sila, è solo l’ombra di quello che era fino a centocinquant’anni fa: le direttive del governo piemontese erano mirate ad impedire che al Sud ci fosse spazio per un’industria di livello eccellente.

E la storia continua: anche oggi, i cantieri di Castellammare, già fortemente penalizzati dopo il 1860, continuano a perdere commesse a vantaggio di quelli del nord, come l’Ilva di Taranto e gli stabilimenti della Fiat. Conclusa la manifestazione, abbiamo incontrato Marco Esposito, giornalista nonché assessore della Giunta De Magistris, per fare il punto della giornata (nella foto con Francesco Manna). «Non credo che siamo venuti qui a raccontarci le stesse cose di ogni anno, perché l’importanza dell’evento, almeno per noi che ci siamo, è chiara. Anzi, dobbiamo ritrovarci in questo luogo per dirci ogni anno una cosa nuova. Negli ultimi tempi, grazie a chi ha seminato prima, sono cambiate alcune cose; certo, non sono ancora cambiati i libri di testo nelle scuole, ma le idee delle persone sì, cominciano a cambiare».

«Ci stiamo rendendo tutti conto che qui c’era la parte produttiva dell’Italia. Negli anni ’30 dell’ottocento, i treni a vapore erano come i computer odierni: il massimo della tecnologia. Nulla di più audace era stato mai inventato: avere la capacità di produrre qui a Pietrarsa i “computer” dell’epoca, voleva dire che si guardava lontano; voleva dire poterli vendere. Nessun governo minimamente razionale avrebbe chiuso la principale azienda del Paese; sarebbe stato logico che avessero annesso il Sud proprio perché c’erano cose che funzionavano: eliminarle del tutto è stato un atto di un insano tale che, poi, alla fine, l’hanno pagata. Avevano reso il Sud una sorta di deserto, e milioni di meridionali presero quei treni per emigrare al nord».

Quali sono le cose nuove?
«Ormai è noto l’appello fatto a Pino Aprile perché si unisca a noi: è il primo che ha scritto un libro e che è riuscito a sfondare una barriera di marginalità: vendere circa 300mila copie significa che un milione di persone hanno letto quel volume, persone che, leggendo quelle righe, hanno sofferto e hanno cominciato a chiedere di fare qualcosa. Si faranno molti atti simbolici, come quello del gemellaggio, ma devono esserci anche azioni concrete. Nascerà un giornale del Sud, scritto per il Sud e che possa parlare a tutti, a noi stessi e agli altri. La stampa, l’editoria, la televisione è tutta decisa altrove. Ricordo un episodio: quando scrivevo per “Repubblica”, il direttore Ezio Mauro, sollecitato dal capo dell’Economia a seguire il caso dell’eventuale privatizzazione dell’Acquedotto Pugliese, il più grande d’Europa, rispose che erano cose che interessavano solo ai terroni. Il tema non era considerato centrale da un direttore di un giornale nazionale. Dobbiamo, cominciare, perciò, a dare da noi le notizie che ci interessano, di ciò che ci riguarda. Naturalmente, dobbiamo essere uniti».

Qual è stata la risposta di Pino Aprile? «So che siamo abituati a cose diverse, a chi si arroga il diritto di decidere del nostro futuro. Credo che Pino Aprile sarà con noi se dimostreremo che dietro gli atti simbolici ci sono idee e volontà comune. Se questi progetti continueranno a viaggiare bene, Pino Aprile dirà: “Facciamolo insieme” Il senso è uno: o riusciremo ad essere, ognuno di noi, le gambe di questo grande Mezzogiorno che si mette in cammino, oppure non ci sono speranze».

A chi fa paura il Sud che riprende a camminare?
«Sembra strano, ma la paura ce l’abbiamo noi stessi, come se avessimo perso la capacità di credere nelle nostre possibilità. Perciò, il primo nemico da vincere è la nostra stessa paura. Poi, credo che ci sia un’ampia fetta di opinione pubblica del centro-nord dell’Italia che capirebbe, che appoggerebbe la nostra orgogliosa riscossa. Purtroppo, la parte che ora sta governando, ormai da troppo tempo, il Paese è quella più retriva e chiusa del Nord. Vede il Sud come un nemico e qualunque cosa accada qui viene guardata con sospetto; per cui, quei signori avrebbero paura».

Perché si continua a penalizzare l’economia del Meridione?
«Cerchiamo di dare la spiegazione più semplice: quando c’è una situazione di difficoltà economica, dovendo scegliere tra quali stabilimenti e cantieri tenere aperti, tendono a salvaguardare quelli del Nord. É una reazione di chiusura legata all’idea sbagliata che, amputando una parte del paese, nel nostro caso il Sud, l’Italia vada più veloce. É assurdo, è come se uno sportivo si tagliasse una gamba per essere più leggero e correre più forte. Questo è quello che sta facendo una fetta di nord, sicuramente minoritaria, ma maggioritaria nei governi che si sono succeduti negli ultimi anni».

Ci sono soluzioni prossime?
«Il nostro è un percorso che va fatto. Credo che proprio le fasi di crisi economica aprano spazi che altrimenti non potremmo immaginare, anche politici. Facciamo politica anche quando facciamo azioni di tipo culturale, di interesse collettivo per la città, la Polis. Quello che sta accadendo nel Mezzogiorno è legato soprattutto alla difficoltà economica; se fossimo stati negli anni ’70, in tempi più floridi, non sarebbero venute fuori queste profonde sperequazioni. Adesso che non si può sprecare nulla, adesso che ci stanno spolpando fino all’osso, bisogna reagire, per noi stessi, per i nostri figli; sono situazioni che incidono profondamente sulla vita delle persone e sulle loro prospettive e, giustamente, provocano una reazione. Personalmente, credo che la reazione positiva per noi possa essere anche molto rapida».