QUELLA MANO STRETTA ATTORNO AD UNA FORCHETTA…

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Diverse sono le tecniche per impugnare la forchetta, nel “confronto” con un piatto di maccheroni. Da quest”analisi nasce un dubbio: non è che i patiti del pesto sono nemici del rosso del pomodoro? Di Carmine CimminoI lazzari e gli scugnizzi che nelle strade di Napoli afferravano con le dita, sollevavano in aria e calavano in bocca un groviglio di spaghetti incaciati erano personaggi di una brutta cartolina per turisti. I turisti stranieri, anche quelli di una certa cultura, provavano per i maccheroni un’avversione talvolta manifesta, che un belga, J. Chalon, autore di un inconcludente libro sui viaggi suoi a Napoli tra il 1874 e il 1886, cercò di spiegare come una naturale reazione dei lindi figli di Francia, Germania e Gran Bretagna al culto napoletano della sporcizia.

“L’impasto da cui si fanno i maccheroni – scrive questo belga – è lavorato da poveri diavoli quasi del tutto nudi: è una fatica massacrante, perché quell’impasto deve restare il più possibile duro e compatto. Gli impastatori si guadagnano da vivere con il sudore della fronte e di altre parti del loro corpo, letteralmente e necessariamente. Questo sudore è indispensabile per l’eccellenza del prodotto, perché nessuna impastatrice meccanica potrebbe dare all’impasto quel sapore lievemente salato che gli dà la pelle dell’uomo”.

Italo Calvino ha dedicato due splendidi racconti alla capacità della mano di commettere, in piena autonomia, tutti i peccati capitali. Lo sfortunato ladro di Furto in una pasticceria non riesce a bloccare la sua mano, che, in preda a una frenesia bulimica, afferra cannoli, bigné, babà e fette di torta e gliele infila a forza in gola. L’avventura di un soldato è, in realtà, l’avventura della mano lussuriosa del fante Tomagra: la quale mano, dopo un lungo e tortuoso scivolamento, riesce a palpare licenziosamente il ginocchio di una signora alta e formosa, che nello scompartimento vuoto del treno ha deciso di sedersi accanto al fante.

Ma a noi interessa la mano stretta intorno a una forchetta, e chiamata a confrontarsi con un piatto di maccheroni di vario calibro. Partiamo dalla tecnica dell’impugnatura. Se sono spaghetti, la mano che afferra e brandisce con forza la forchetta (non è una regola, ovviamente), può essere la mano dell’uomo sicuro di sé, o del presuntuoso, dell’avido, dello strafottente, del pescecane, del membro della cricca, insomma di chiunque si proponga o si illuda di mangiarsi il mondo. La forchetta viene infilata nel mucchio degli spaghetti, li arravoglia, li solleva, e intanto la testa dell’uomo si piega, e la bocca va verso il viluppo, lo ingoia, e lo getta giù dopo averlo sottoposto a un intervento meccanico e approssimativo delle mandibole.

Talvolta, dietro un impatto in apparenza arrogante si nasconde solo la memoria istintiva del tempo della fame, quando una era la zuppiera, piazzata al centro della tavola, e molte erano le mani che si protendevano verso di essa, e nel protendersi cercavano di sopraffare e di respingere le mani antagoniste del vicino. Chi porta dentro di sé questa memoria tende a usare la mano sinistra per tener fermo il piatto, o come barriera simbolica innalzata davanti al piatto per difenderlo da un attacco esterno: in quel gesto ancestrale la mano difensiva vede solo nemici intorno a sé: come la mano del divoratore di zuppa nel disegno potente di Honoré Daumier (foto).

C’è poi l’impugnatura ferma e nello stesso tempo delicata della mano che stringe la forchetta non a metà dello stelo, ma per la coda, e un momento prima di arravogliarli va a pungere gli spaghetti, per sentirne la consistenza, se sono al dente, oppure apre, dall’alto, il mucchio di pasta, lo allarga, lo scava: è la mano del sospettoso, dell’incredulo, di colui che ha fede solo nella natura sperimentale della conoscenza, e non oserebbe mettersi a mangiare il mondo senza averlo prima misurato e formato. È, insomma, il mangiatore educato, che non fa schiocchi con la bocca, che fa viluppi piccoli, che gli spaghetti non li vuole troppo rossi: il rosso è pur sempre il simbolo di qualcosa di eccessivo, e sarebbe interessante studiare se per caso i patiti del pesto e della genovese non siano prima di tutto nemici del rosso del pomodoro.

L’educato li vuole appena macchiati, i suoi spaghetti, e se sono spaghetti a vongole, le vongole le mette di lato, dopo averne titillato il frutto con la punta della forchetta, e se le conserva per dopo, quando ha buttato giù l’ultimo rotolino di pasta. I più democratici tra questi educati mangiatori sono quelli che agli spaghetti fanno fare un solo giro intorno ai denti della forchetta, e li sollevano fino all’altezza della bocca, e poi li accompagnano verso le labbra, e infine li ingoiano, e nell’ingoiare, abbassano il capo, per non infastidire chi sta di fronte. Così vuole il galateo. Talvolta, mentre la forchetta disposta di traverso accompagna la sua preda alla bocca, il mangiatore galante poggia la mano sinistra sul petto: che è un gesto di rispetto e di ossequio. Ti divoro sì, ma con reverenza.

La poesia dei maccheroni di grosso calibro, i maltagliati, mettiamo, o gli ziti spezzati nel ragù, sa di misticismo. Prima di tutto, i maccheroni vanno masticati. Consapevolmente. Artisticamente. E masticare è un verbo che da solo macina simboli e richiami. Masticare forse viene dal greco mastòs, la mammella, il latte, il cibo primigenio, il ritorno all’infanzia, il piacere archetipo dell’eros del cibo. L’uomo che mastica si oppone all’uomo che divora, perché anche se sminuzza le cose, sa che non può trarne fuori tutti i segreti: le cose, pur sminuzzate, sono più forti di lui, e lui si arrende al mistero, o si accontenta di sollevare solo il primo velo. Il masticatore assapora il piacere del tempo lento, che è negato al divoratore.

In Notturno D’ Annunzio scrive: “Usciamo. Mastichiamo la nebbia. La città è piena di fantasmi”. Gli occhi ammalati del poeta affidano alla bocca il compito di provare e di capire la vanità, vera e simbolica, delle cose.

Ogni maccherone ha la sua individualità, fatta di consistenza, lunghezza, colore e permeabilità al sugo: perciò i maccheroni vanno mangiati uno alla volta, o, tutt’al più, a coppie. Il vero mangiatore di ziti sta a schiena diritta, osserva i maccheroni infilzati, medita sulla sacralità dei gesti: non si chiacchiera, intorno ai maccheroni, si parla con gli occhi. Sono improvvise ventate di silenzio: il silenzio è necessario, perché la mano non si distragga, e perché i denti e la lingua trasmettano a tutti i nervi e a tutte le fibre la percezione assoluta e definitiva dell’istante in cui il corpo del maccherone e l’essere del mangiatore diventano una cosa sola. E questa è esperienza mistica.

Questa è percezione panica dell’unità del cosmo. Bartolomeo Nardini ci ha tramandato un motto dei lazzari napoletani che egli vide in azione durante i moti del 1799: ‘stu maccarone se magagna / guardanno ‘ncielo. In questo detto si accordano, mirabilmente, il moto dello sguardo che volgendosi al cielo esprime il valore ideale del piacere, e la forza ferina della fame che magagna i vermicelli, li maltratta, li stropiccia, li lacera, e poi li ingoia.

I vermicelli come i nobili e i borghesi: magagnati dai sanfedisti e dalla plebe in rivolta. Mi chiedo: i traditori mangiano maccheroni? e se sì, come li mangiano? E i maccheroni sopportano di essere mangiati dai traditori?
(Foto: Quadro di H. Daumier, La zuppa)

QUANDO SI MANGIANO I MACCHERONI LA MANO PARLA

L’OFFICINA DEI SENSI