E’ giusto che “’a pizza int’’o ruoto” dei fratelli Cuorvo porti il nome di Pino Neri: è la pizza di chi governa il tempo, e non lo subisce…

0
848
“Pizzaiolo napoletano, stampa del 1830”

La pizza nel “ruoto” è simbolo della sapienza dei contadini che conoscono il valore del tempo “lento”, dei ritmi della interiorità e della riflessione, che imparano dalla Natura a distinguere le apparenze ingannevoli dalla sostanza della verità. Così è il giornalismo di Pino Neri. E’ dunque giusto che i fratelli Cuorvo, pizzaioli in Pomigliano, abbiano dato il nome di Pino alla loro spettacolosa “pizza int’’ o ruoto”.

E’ superfluo ricordare il valore e l’importanza degli articoli che Pino Neri scrive anche per il nostro giornale: pezzi impastati di coraggio, di conoscenza autentica di uomini e di cose, di amore ,amarissimo talvolta, ma inestinguibile, implacabile, per quelle terre della Campania una volta Felice in cui gli uomini e le istituzioni stanno dimostrando quanto ferina e stupida sia la nostra barbarie. Due anni fa Pino Neri raccontò splendidamente l’arte dei fratelli Cuorvo, pizzaioli in Pomigliano: anche quel racconto era intriso di impegno civile, perché i fratelli Cuorvo si proponevano di recuperare, attraverso la difficilissima ricostruzione dei sapori di una volta, la memoria di un tempo non lontano, e tuttavia assai remoto nella nostra percezione, in cui il territorio tra Pomigliano, Acerra e Castello di Cisterna “era un tripudio di contadini e fornai, di boschi, alberi da frutta, vigneti, ortaggi di tutti i generi.”. E un omaggio alla tradizione contadina era “la pizza nel ruoto”, nel tegame circolare di rame, la pizza che, spiegò uno dei fratelli Cuorvo, i contadini chiamavano “‘a lampa”, cotta di riflesso, dal calore che si irradia “artisticamente”.
E Pino descrive questa pizza come in uno slancio lirico: “Morbida ma non troppo, qualche timido guizzo croccantino, un sapore che ricorda da vicino quello del pane appena sfornato, più alta della margherita, e poi quel cornicione basso, quasi invisibile, un orlo praticamente, bruciacchiato all’esterno al punto giusto. E che dire di quei pomodorini schiacciati, dolci, di quell’incredibile, intensissimo origano.”. Ora, i fratelli Cuorvo hanno messo nel menù della pizzeria una pizza “Pino Neri, “nel ruoto di rame: capperi, provola e origano.”. E mi pare giusto, e per non poche ragioni.
Non starò a parlare della pizza: nulla di nuovo si potrebbe aggiungere a una letteratura sterminata, in cui tuttavia c’è ancora un nodo importante da sciogliere, e riguarda la disputa tra classicisti e novatori: fermamente convinti, i classicisti, che la pizza è pizza solo a Napoli, e altrettanto fermi, i novatori, nel sostenere che la pizza resta pizza in tutto il mondo, perché attraverso il suo culto è il mondo che si adegua a Napoli. In realtà, Napoli ha creato due alimenti universali, i maccheroni e la pizza, davanti ai quali si sono arresi anche alcuni tenacissimi denigratori della nostra città: si pensi alla complicata relazione che Marinetti intrecciò con la pasta, e alla faccia tosta di Renato Fucini, che dopo aver parlato di Napoli con molti “se”, “ma”, “però”, e “sturziellamenti” di muso, come arrivava a Napoli, correva a “consolarsi” con una pizza “alla marinara”. E mi piace anche ricordare che la carriera di Edoardo Scarpetta attore iniziò, “benedetta” da Antonio Petito, con l’interpretazione di un farsesco Feliciello che ruba una pizza.
Ma la riflessione più profonda sul significato metaforico della pizza classica napoletana ebbi la fortuna di ascoltarla in una di quelle magiche serate ottavianesi in cui i giurati delle edizioni del “Premio di poesia dialettale Salvatore Di Giacomo”, Vittorio Amedeo Caravaglios, Francesco D’ Ascoli, Vittorio Paliotti, Aurelio Fierro, Nicola De Blasi, Gerardo Marotta, si riunivano a leggere le poesie dei concorrenti e su una parola, su un’immagine, su una rima sciorinavano un repertorio di scintillanti storie “napoletane” che in nessun libro avrei potuto trovare. Una volta uno dei giurati, credo Paliotti, osservò che la pizza classica napoletana è simbolo del tempo fugace, dell’attimo che vola via rapinoso, e che non riusciamo a fermare: veloci sono le mani del pizzaiolo che tratta, allunga, allarga, stende l’impasto, rapidi i gesti che distribuiscono gli ingredienti, che dispongono sulla pala il disco ancora crudo e lo depositano in un angolo del forno,fulminea è l’azione del fuoco, di breve durata è l’incontro tra il gusto e la pizza: la pizza classica si mangia “cavera cavera”.
“’A pizza int’’o ruoto” è la risposta della saggezza dei contadini, che conoscevano la bellezza del tempo “lento”, del tempo che si misura con il metro dell’interiorità, che “osservavano” ogni “muorzo” prima di portarlo alla bocca. La pizza nel “ruoto” si cuoce per gradi, , conosce il fuoco, ma non lo subisce : essa porta in sé tutta la cultura e la poesia del pane, che è, da sempre, – lo spiegò mirabilmente Camporesi – il fondamento di tutti i valori, reali e metaforici, della gente che svolge la più nobile delle attività, l’agricoltura.
Il giornalismo di Pino Neri sa di tutto questo: la lucida e coraggiosa attenzione per le cose del mondo, la riflessione vigile, profonda, pronta a cogliere i nessi tra i fatti, il culto dei valori, la fiducia nella sostanza della giustizia, la speranza che la storia sia fatta di verità autentiche, e non da menzogne truccate da verità nell’interesse di pochi, e in danno di tutti gli altri. E poi c’è l’origano, che la pizza impose come “odore” insostituibile della cucina napoletana: l’origano che purifica il cuore da ogni sofferenza, l’origano, il cui profumo resiste, a lungo, anche ai moti dell’aria…..Sa di origano – un profumo intenso e persistente, nobile e “sfizioso” – la saggezza dei Cuorvo pizzaioli che hanno intitolato a Pino Neri la pizza “signora”, quella “int’’o ruoto”.