Le ricette di Biagio. “Gli schiaffoni” che non fanno male: alla sorrentina e al sugo di funghi.

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G.Gigante, Mercato a Quisisana.

La pasta della serena sazietà. Il flusso dei ricordi, gli assalti alle Cuccagne, gli emigranti e la civiltà della pasta nelle Americhe. Un lacryma nobilissimo, il “Gelsonero”.

Paccheri alla sorrentina. Ingredienti: 500 gr. di paccheri ,500 gr di pomodorini,100 gr.di provolone del Monaco,peperoncino,olio extra ,aglio e basilico. Mettete in un tegame l’ olio extra con l’aglio,il peperoncino,dopo pochi minuti aggiungete i pomodorini e fate cuocere per 20 minuti, dopo frullate la metà del sugo. Scolate la pasta al dente e fate amalgamare il tutto, aggiungendo il provolone del monaco ed il basilico spezzato con le mani.
Paccheri al sugo di funghi. Ingredienti: 6 pomodori maturi, a cui sono stati tolti i semi e la pelle; gr.30 di pinoli; un trito di aglio; un trito di cipolla; gr. 150 di burro; rosmarino; olio; gr. 120 di funghi ovoli: provolone del Monaco grattugiato. Rosolate i pinoli nel burro, poi toglieteli, e calate nella casseruola, uno dopo l’altro, il trito di aglio, il trito di cipolla, il rosmarino, e fate in modo che l’aroma del burro trattato con i pinoli “ si attacchi” a tutti gli ingredienti. Non appena la cipolla si fa dorata, versate la polpa dei pomodori , i funghi tagliati a frammenti, e i pinoli pestati nel mortaio e lasciate cuocere a fuoco lento per una ventina di minuti, aggiungendo, se è necessario, acqua o brodo vegetale. Mettete da parte una metà dei funghi, asciugati quanto più sia possibile. Condite con il sugo i paccheri al dente, amalgamate, spruzzate sulla pasta il provolone del Monaco grattugiato e disponete in cima i funghi messi da parte.
Su entrambi i piatti abbiamo bevuto il “Gelsonero” di Villa Dora.

Biagio Ferrara
Due volte in una sola settimana Biagio ha cucinato i paccheri, quelli alla sorrentina, che sono, per lui, un piatto del cuore, e quelli al sugo di funghi: la ricetta gli è stata fornita da una signora genovese, ma lui l’ha modificata, aggiungendo e togliendo ingredienti. Ormai è un esperto di paccheri, Biagio, perché possiede il segreto del punto perfetto di cottura e perché alcuni commensali abituali sono golosi di paccheri. Siamo golosi. Mangerei paccheri ogni giorno: nonostante il nome, sono una pasta mite, anche se non c’è sugo che li possa sopraffare. Non li chiamerei mai “schiaffoni”: per rispettare la tradizione napoletana, e perché la parola “schiaffoni” suggerisce un volgare rumore che si prolunga crepitando, mentre “paccheri” è una nota rapida e netta. Sono il piatto della nostalgia. Alla mia generazione ricordano la strada che da Nola sale ad Avella, e davanti a ogni porta, piatti larghi e lunghi e cestini colmi di fusilli e di paccheri lavorati a mano, secondo una tradizione antica e un’arte preziosa che dava alla pasta delicatezza e nerbo, e quella superficie che anche dopo la cottura restava grumosa e esaltava il sugo e accarezzava ogni punto della bocca. I “paccheri” mi ricordano le gite domenicali da Ottaviano a quei luoghi di umile Cuccagna, a bordo della carrozzella rossa guidata da mio zio Pippone, e trainata da un grigio cavallo ungherese a cui mancava solo la parola.
Nel ‘700 il Carnevale napoletano si celebrava anche nelle quattro domeniche che precedevano il martedì grasso: ogni domenica veniva allestita, davanti al Palazzo Reale, una Cuccagna, una macchina di legno a più piani che aveva la forma o di una montagna, o di un vascello, o di una fortezza e che, colmata di cibi, veniva saccheggiata dalla folla. La prima domenica la cuccagna, fornita dai pastai e dai panettieri, era composta di farina, di pasta, “ maccheroni, paccari per i timballi e vermicelli”, e da forme di pane. Ricordo vagamente un lontanissimo Carnevale ottavianese, le donne della Zabatta che suonavano le tammorre nell’alveo ancora scoperto a Piazza San Francesco, e quattro, cinque persone impegnate in una gara a chi riuscisse a divorare una maggiore quantità di pasta, e ricordo l’ira di mio padre che non sopportava lo “spettacolo” umiliante della miseria.
Mio padre, che non era un goloso, mangiava paccheri al sugo, come un piatto rituale, il 16 luglio, giorno sacro alla Vergine del Carmelo: diceva che la Vergine è la Patrona dei pastai, e non aveva torto. Questa “devozione” l’aveva appresa da un suo amico di San Giovanni a Teduccio, che da ragazzo aveva lavorato in un mulino. Lessi poi, da qualche parte, che i napoletani emigrati negli Stati Uniti vi diffusero a poco a poco la cultura della pasta, a partire dagli spaghetti e dai paccheri, che li aiutavano a ricordare Napoli e, ora che mangiavano tre volte al giorno, i tempi della povertà in cui l’esser sazio era un mito. Nessun tipo di pasta suggerisce, più dei “paccheri”, l’immagine della serena sazietà.
Mangiare ricordando è un incantesimo: prima di Proust l’hanno detto Marziale e Ateneo. Sui due piatti abbiamo bevuto il “Gelsonero” di Villa Dora, un vino che ha prosciugato il nostro vocabolario e tutto il repertorio delle immagini: ormai ci mancano le parole. E’ un vino autenticamente nobile e come tutti i nobili veri, orienta i moti dei sensi, apre orizzonti nuovi alla mente, conquista, ma senza cedimenti. I due enologi che stavano a tavola con noi proprio quando erano sul punto di gridare vittoria, convinti di aver svelato la personalità tutta di questo lacryma straordinario, proprio allora sono stati smontati da un “però..” , e arrendendosi, hanno ammesso, con l’onestà chiara dell’intelletto, che in questo nobile vino c’ era ancora un segreto, almeno uno, che era rimasto un segreto. Li lasciai che si confrontavano sulle caratteristiche del rosso della frutta rossa che connota al naso il Gelsonero. Avrebbero risolto uno degli enigmi, se avessero conosciuto la storia della ciliegia “amarena” di Terzigno…